lunedì, settembre 04, 2006

E' MORTO GIACINTO FACCHETTI

Ciao Giacinto.
Oggi, lunedì 4 sattembre 2006, si è spento a Milano Giacinto Facchetti, ex giocatore e presidente dell'Inter. Da questo blog, spesso ironico e pungente verso tutto il mondo nerazzurro, voglio esprimere il dispiacere mio e, mi auguro, di tutti gli sportivi, per la dipartita dell'ex terzino nerazzurro e le più sincere condoglianze alla sua famiglia.

Si è spento a Milano Facchetti, simbolo dell'Inter: dalle 634 gare con 79 gol al ruolo di presidente. Leader della Grande Inter di Herrera, capitano per eccellenza dell'Italia

“Se ne è andata l’ultima bandiera”: frase sempre evocativa, spesso retorica e soprattutto fuori moda in un calcio business e senza anima. Ma questa volta possiamo proprio dire che l’ultima bandiera ha smesso di sventolare e, purtroppo, per sempre. Piange l’Inter, piange il mondo del calcio, per l’addio di Giacinto Facchetti, spentosi alla soglia dei 64 anni dopo una malattia dura e terribile, quanto veloce nel strapparlo ai propri affetti. Muore un mito, muore il capitano per eccellenza, ma si sa che i miti sono immortali e allora sembra di vederlo ancora lì. Sulla fascia sinistra ad interpretare per primo il ruolo di terzino fluidificante; a guardare la monetina che sanciva la vittoria italiana nell’Europeo casalingo del 1968; stampato per sempre nella formazione-mantra Sarti-Burgnich-Facchetti e via dicendo della Grande Inter di Helenio Herrera; monumento azzurro capace di accompagnare l’Italia attraverso 3 Mondiali con la folle e storica notte di Italia-Germania 4-3 a Messico ’70; e alla fine di recitare il ruolo di presidente nell’Inter di Massimo Moratti dopo aver fatto grande i nerazzurri di papà Angelo.


Giacinto era nato a Treviglio, provincia di Bergamo, il 18 luglio 1942: non ha mai abbandonato le sue radici (abitava a Cassano d’Adda) perché amava vivere nel verde dove ritrovava l’equilibrio. Padre ferroviere, madre casalinga, un fratello e tre sorelle: ambiente sereno e pulito, il massimo per crescere una speranza. Il grande amore con l’Inter nasce però da uno “sgarbo”. Facchetti venne raccomandato a 16 anni da Meazza per un provino all’Inter, ma venne scartato dai soloni della società. Lui si rivolse all’Atalanta, firmò, ma un factotum della società milanese lo convinse a rimanere inattivo fino a novembre e quindi passare all’Inter. Era il 1958, l’inizio della leggenda. Lo spilungone di Treviglio strappato all’atletica, lavora sodo: mattina a scuola, panini al volo, poi di corsa alla stazione (accompagnato in bici dal papà), treno, tram, allenamenti e ritorno.

Herrera lo vede e intuisce la stoffa del campione, fino a farlo debuttare il 21 maggio 1961 in Roma-Inter 0-2. La settimana dopo ancora in campo e partita sbloccata con un gol in Inter-Napoli 3-0. Facchetti cresce, supera le critiche di San Siro per una stagione opaca e nel 1963 si laurea campione d’Italia per la prima volta. E’ l’anno della conferma perché il 27 marzo debutta con l’Italia ad Instanbul con la Turchia (0-1). Non si sfilerà più la maglia azzurra: 94 presenze, 70 da capitano e 3 gol con il trionfo dell’Europeo 1968 e il titolo di vice-campioni del mondo nel 1970. Il Mago Herrera lo trasforma nel primo terzino-bomber della storia, il primo terzino fluidificante che attacca sulla fascia, il punto di riferimento di sua maestà Beckenbauer. Nel 1964 perde lo spareggio scudetto con il Bologna, ma si rifà con la Coppa Campioni e Intercontinentale. Il bis nel 1965 in Europa, nel Mondo e anche in Italia con il secondo scudetto. Il 1966 porta ancora tricolore e la prima fascia di capitano con l’Italia: a Milano il 1° novembre nel successo sull’Urss dopo la disfatta mondiale con la Corea del Nord (il ricordo più doloroso della carriera).

Le vittorie si accoppiano con lo stile, l’eleganza e la serietà. Il matrimonio con il nerazzurro è felice e nel 1967 si “affianca” a quello di vita con l’amata Giovanna, conosciuta in una balera di Rivolta d’Adda. Viaggio di nozze ad Orvieto: lui in caserma per servizio militare, lei in una pensioncina. Quattro figli coroneranno il sogno d’amore: Barbara, Vera, Gianfelice e Luca (attaccante con carriera in serie C e D). Sul campo Giacinto gioca e vince: il quarto scudetto arriva nel 1971 e l’ultimo successo è la Coppa Italia del 1978, quando la carriera è al termine. Saluta il campo a 36 anni, il 7 maggio ’78 in Inter-Foggia 2-1 con un autogol: quasi una beffa del destino per il terzino goleador che aveva collezionato 475 partite in serie A con 59 gol (634 in totale con 75 gol), tutto con la maglia nerazzurra.

Dopo una brevissima parentesi di 9 mesi da vicepresidente dell’Atalanta nel 1980 (sempre il nerazzurro…), Giacinto rientrò in orbita Inter come dirigente nel 1985 con Pellegrini. Dieci anni dopo arriva Massimo Moratti: il simbolo è sempre al suo fianco, nel novembre 2001 diventa vicepresidente, soffre per il 5 maggio e dal gennaio 2004 è la bandiera del club. Miglior persona non si poteva trovare come 19° presidente dell’Inter, miglior carriera nerazzurra non poteva capitare al “Cipe”, come lo chiamava il Mago Herrera dopo che Buffon gli aveva storpiato il cognome in “Cipelletti” nel ’60.

Lascia un uomo tutto di un pezzo: venne definito “terzino e gentiluomo”. Troppo poco per un giocatore che chiuse la carriera con la Nazionale come capitano non giocatore nel 1978. Poteva ribellarsi ad un ruolo non suo: invece zero polemiche, aiutò sempre Bearzot nel Mondiale argentino e trovò la “gloria letteraria” nell’eroe di “Azzurro tenebra”, il romanzo di Giovanni Arpino, suo grande amico e padrino di Gianfelice. Il gigante che da piccolo sognava di fare il muratore, perché era felice quando dal primo piano di una casa in costruzione poteva tuffarsi su un mucchio di sabbia, chiudeva una carriera esemplare (un solo rosso per un applauso ironico all’arbitro Vannucchi nel 1975 con San Siro) tra i dolci ricordi e la consapevolezza di essere un simbolo del calcio italiano. Sempre a testa alta, in campo e fuori, amato dagli interisti e non solo. Ci mancherà, sembra retorica, ma non lo è.


In questi momenti è bello unirsi tutti assieme sotto la stessa bandiera, quella dello sport, senza atti ne frasi da tipi "tifosi" italiani.

Sono sempre stato critico verso l'Inter e anche verso lui, ma in questi momenti l'unico sentimento che può assalirmi è una profonda tristezza per un uomo e una bandiera che se ne va. E non mi si può accusare di ipocrisia: davanti alla morte, cretinate come il tifo calcistico e le rivalità vanno messe da parte.

Non sono così illuso da credere che, se fosse accaduto ad uno dei "nostri", l'affetto dei rivali sarebbe lo stesso. E' questa l'unica piccola polemica che voglio fare in questo articolo. Noi siamo tifosi, ma soprattutto siamo essere umani. Se Pessotto si butta dalla finestra e rischia di morire, non deve essere preso in giro oppure insultato con assurde accuse di doping. Se l'aereo del Torino si schianta contro Superga e muoiono tutti,non c'è da essere felici. Se 39 juventini muoiono all'Heysel di Bruxelles, non si dovrebbe ricordarlo con piacere, quasi con fierezza, o, addirittura, dedicarci una canzone.

E' questo il calcio che voglio, è questo il calcio che noi tutti vogliamo. Allora facciamo un passo indietro, pensiamo a tifare per la nostra squadra e non gufare gli avversari, impariamo a godere delle nostre vittorie piuttosto che delle disgrazie degli altri. Sarebbe un primo passo, se non altro verso la civiltà!

Vorrei concludere con una preghiera, una speranza per il futuro: possiamo provare a far tornare il calcio una festa per tutti, dalle famiglie allo stadio ai tifosi nemici sul campo, ma amici fuori? E' così lontata la mentalità inglese dalla nostra? E' proprio impossibile immaginare una settimana senza processi, senza controcampi, senza trasmissioni radiofoniche romane, volte solo a mintare il caso e creare polemica.

Addio Giacinto, continuerai a tifare per la tua Inter da lassù e, magari, potrai muovere una preghiera per migliorare questo perverso sport...

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juve

juve/


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