mercoledì, gennaio 17, 2007

ALLUCINANTE!!!

In due anni il ministero di Roberto Castelli ha speso più di 200 milioni per l'acquisto di apparecchi il cui uso non era necessario. La denuncia dell'Antimafia


Era uno dei cavalli di battaglia di Roberto Castelli, ingegnere acustico ed ex Guardasigilli. "Maggiori risorse per la Giustizia? Serve piuttosto una cultura manageriale", amava ripetere l'ex ministro citando immancabilmente l'abnorme crescita dei costi per le intercettazioni telefoniche. "Siamo in una giungla", denunciava il senatore leghista, "e nessuno prima di me è mai intervenuto per un riordino". Tutto vero. Peccato che tra il 2001 e il 2003 il ministero da lui diretto abbia gettato al vento più di 200 milioni di euro in spese per apparati d'intercettazione il cui uso avrebbe potuto benissimo essere evitato.

Il caso, sul quale ha indagato a lungo la Guardia di Finanza e la magistratura di Roma, nasce quando Telecom, Omnitel e Tim decidono di dotarsi di macchinari che consentano di trasmettere alle sale ascolto delle procure i dati di traffico telefonico in contemporanea con le intercettazioni. In pratica di fornire agli investigatori non solo il contenuto delle conversazioni spiate, ma in tempo reale anche i numeri di telefono e gli intestatari delle chiamate in entrata e in uscita. La Urmet di Torino vende alle società telefoniche gli apparecchi chiamati Dfd (distributori di fonie e dati) che rendono possìbile l'operazione. Il problema è che Urmet inserisce nei Dfd un codice che cripta il segnale in uscita. Per poter utilizzare il nuovo servizio le procure devono così noleggiare a caro prezzo, 26 euro al giorno per ogni singola intercettazione, un decoder, denominato risponditore Srf, prodotto sempre dalla Urmet. Nel giro di pochi mesi i costi delle intercettazioni aumentano all'improvviso del 35 per cento circa.

L'affare ha il sapore dell'imbroglio. Anche perché Telecom invia ad alcuni magistrati un dépliant nel quale si dice che senza i risponditori Srf non sarà più possibile registrare le intercettazioni. In realtà i risponditori servono solo per accoppiare istantaneamente i dati di traffico alle varie telefonate. L'11 gennaio 2002 se ne rende conto anche la Procura nazionale antimafia che, allarmata, scrive al ministero della Giustizia. I pm spiegano come "il protocollo cifrato di trasmissione", che Urmet non vuole fornire alle aziende concorrenti, determini "una situazione di sostanziale monopolio" e "costi superiori a quelli del libero mercato". Quattro mesi dopo, la Procura di Roma apre un'indagine a carico d'ignoti nella quale ipotizza una gigantesca truffa. L'inchiesta sarà poi archiviata, ma Giovanni Ferrara, il procuratore in persona, pur sostenendo che nella vicenda non si ravvisano reati penali, punta l'indice contro il ministero retto da Castelli. Infatti in via Arenula nessuno ha battuto ciglio quando nei primi giorni del 2002 è arrivata la lettera dei magistrati antimafia: il monopolio Urmet è proseguito per tutto l'anno, e per buona parte del 2003, provocando un ulteriore aggravio di costi calcolabile in almeno 150 milioni di euro. E si è rotto solo quando, durante l'inchiesta penale, l'azienda torinese ha fornito, dopo mesi di pressanti richieste da parte di Omnitel, il codice con cui criptava i dati.

Ferrara, riferendosi alla denuncia dell'Antimafia, scrive nella sua richiesta di archiviazione: "A quel punto avrebbe dovuto essere il ministero ad accentrare su di sé la definizione delle questioni, determinando l'acquisto di risponditori ovvero di tariffe di noleggio valide per tutti o ancora rappresentando a Urmet l'esigenza di conoscere il protocollo di trasmissione (così da impedire le temute situazioni di monopolio) (...) Nessuna iniziativa è stata peraltro adottata a livello ministeriale, forse per una sottovalutazione della estrema rilevanza delle problematiche tecniche e dei connessi aspetti economici". Un bello smacco per un ingegnere acustico come Castelli che aveva fatto della gestione manageriale della giustizia il suo motto e che invece, per la mancanza di fondi, ha dovuto fare i conti con tribunali senza riscaldamento (Roma), carta igenica e per fotocopie (Roma, Bari), auto blindate e codici (Palermo), materiali di cancelleria (quasi ovunque).
Ma a leggere le 34 pagine del decreto di archiviazione dell'indagine romana, inspiegabilmente inviate al ministero e alle commissioni giustizia di Camera e Senato con un intero lunghissimo paragrafo coperto da omissis, le sorprese non finiscono qui. C'è di peggio. In molti casi sono stati noleggiati risponditori Urmet da utilizzare per spiare utenze Wind. Macchinette del tutto inutili visto che Wind non ha mai criptato i dati di traffico inviati ai centri di ascolto. Le compagnie telefoniche, poi, hanno rinnovato i propri apparati d'intercettazione a costo zero, facendosi interamente rimborsare dallo Stato.

Quello che è accaduto con Telecom rende bene l'idea delle dimensioni dello scandalo: tra il 2000 e il 2001 la società, allora gestita da Roberto Colaninno e dai bresciani di Chicco Gnutti, investe 55 miliardi di lire nel nuovo "progetto intercettazioni". Particolare importante: nella cordata che allora controllava l'ex monopolista telefonico c'era anche Massimo Mondardini, il proprietario di Urmet che si trovava a essere allo stesso tempo fornitore e socio dell'azienda di telecomunicazioni. In quegli anni nelle centrali di Telecom vengono adottati i trasmettitori Dfd della Urmet e così, scrive la Procura, la compagnia "consegue rilevanti economie in termini di risorse umane e materiali" e soprattutto libera migliaia di linee telefoniche che "vengono messe a disposizione dell'utenza commerciale, naturalmente a titolo oneroso". Insomma, ammodernare gli impianti è un investimento che rende. Eppure il governo decide comunque di rimborsare le spese affrontate dalle aziende telefoniche. Come? Presso i ministeri della Giustizia e delle Telecomunicazioni un "apposito Gruppo di Lavoro" stabilisce un listino prezzi in base al quale, per tre anni, tra il 2002 e il 2004, alle compagnie viene garantito "un aumento di lire 70.083 (ogni 50 giorni d'intercettazione, ndr) destinato a compensare gli investimenti dei gestori che si erano dotati dei trasmettitori". In nessun altro paese d'Europa è mai accaduta una cosa del genere.

In questo caso però le responsabilità politiche, almeno quelle iniziali, non ricadono su Castelli, ma sui suoi predecessori del centrosinistra. Il gruppo di lavoro predispone infatti la bozza del Listino prezzi agli inizi del 2001 e un decreto interministeriale la rende operativa a partire dal 26 aprile di quello stesso anno (la fiducia al governo Berlusconi è del 18 giugno). Il fatto "inquietante", secondo la Procura di Roma, è comunque un altro: al gruppo di lavoro partecipa, in qualità di consulente del ministero della Giustizia, Bruno Pellero, forse il miglior esperto d'intercettazioni d'Italia, che allora "collaborava a vario titolo con società del gruppo Urmet". I magistrati ritengono anzi che la fabbricazione dei trasmettitori e ricevitori Urmet sia stata possibile "grazie anche ai suoi concreti apporti tecnici". Perciò trovano singolare che nel Listino non si parli dei risponditori che le procure devono noleggiare da Urmet.

Per qualche mese i sospetti nei confronti di Pellero sono pesanti: si pensa "a un indebito favore" fatto alle compagnie con "l'inusitato piano di ammortamento degli investimenti sostenuti dai gestori telefonici" e a una deliberata "volontà" di dare una mano a Urmet. In realtà, come emergerà dall'indagine, accanto al Listino il gruppo di lavoro aveva proposto di approvare anche un altro documento, chiamato 'repertorio', nel quale la questione dei risponditori veniva affrontata. Ma alla fine l'ufficio legislativo di via Arenula aveva bloccato il tutto, sostenendo che per l'approvazione non bastava un decreto interministeriale, ma ci voleva una legge.

La confusione normativa, la fretta dei pm di poter disporre di più efficaci strumenti d'inchiesta, l'incapacità dimostrata dai politici, fa poi il resto: per tre anni gli utili delle società del gruppo Urmet, in quel momento in difficoltà per il calo degli appalti nella telefonia, aumentano vertiginosamente. Urmet fin che può si rifiuta di consegnare a tutti "le specifiche tecniche del protocollo di trasmissione". Anche a Telecom e alla Procura nazionale antimafia.
Oggi in via Arenula i retroscena di questa storia fanno molto rumore. Leggendo il testo dell'archiviazione, il sottosegretario alla Giustizia Luigi Ligotti (Idv) è rimasto "incredulo e sconcertato" e ha segnalato alla commissione Giustizia della Camera, dove è stata aperta un'inchiesta sul costo delle intercettazioni telefoniche, come il punto centrale della questione siano le spese per noleggio di tutte le apparecchiature. "È sperabile", aggiunge, "che l'ex ministro Castelli faccia capire come sia stato possibile che questo enorme scandalo accadesse". Vedremo. Per il momento in Parlamento c'è chi si limita a chiedere di ridurre il numero dei reati per cui è consentito intercettare i telefoni. Un metodo sicuro per spendere meno. E soprattutto per lasciare impuniti i colpevoli.

Fonte: L'espresso

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