Fallimento alla milanese
Mentre la società tanto cara a Peppino Prisco si è cucita sulle maglie uno scudetto vinto fuori dal campo grazie alle conseguenze di quella battaglia mediatica e giudiziaria che ha appassionato l’opinione pubblica, si alzano le grida, neanche tanto contenute, di quanti affermano che la squadra ha meritato questo premio per la sua correttezza e il senso etico dei suoi dirigenti, giocatori e, non ultimo, della proprietà. Prima che sull’onda emotiva inizi un processo di beatificazione in vita dell’Inter, varrebbe la pena di soffermarsi su vicende – molte delle quali recenti – sulle quali l’opinione pubblica non è forse adeguatamente informata. Non per ripicca, ma per mostrare che certi usi e costumi del mondo calcistico sono generalizzati e come tali vanno considerati, se si vogliono intraprendere vere riforme. Prima, però, è necessaria una premessa di carattere storico-quantitativo riferita ai numeri del campionato di calcio di serie A.
Il nostro massimo campionato di calcio ha visto negli ultimi dieci anni crescere i suoi ricavi a dismisura. Il fatturato complessivo delle squadre che hanno dato vita alla stagione 1997/98 è stato di circa 650 milioni di euro, e in quello stesso anno il risultato operativo di gestione o primo margine (che si ottiene sottraendo ai ricavi il costo del lavoro, gli ammortamenti e gli altri costi operativi) è stato negativo per 220 milioni. Nella stagione 2003/04 – ricordiamo che i bilanci delle società di calcio sono infrannuali per essere coincidenti con la stagione sportiva – il totale dei ricavi è stato di 1,150 miliardi di euro e il risultato operativo di conseguenza è risultato negativo per circa 600 milioni. Nella sostanza sono cresciuti i ricavi e sono parimenti aumentati i debiti e quindi il deficit della gestione. Ma il dato più interessante si desume confrontando non il primo margine, ma il secondo: cioè il risultato che si ottiene aggiungendo o sottraendo le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dalle cessioni dei giocatori. Inutile dire che le minusvalenze a livello aggregato non si sono verificate, e anzi i bilanci hanno risentito in maniera mirabolante dei maquillage contabili operati dalle società. Così nel primo degli anni oggetto dell’analisi quantitativa, cioè la stagione 1997/98, le plusvalenze sono state pari a circa 200 milioni, cioè meno di un terzo del totale dei ricavi, e in ogni caso le stesse hanno contribuito a rendere il conto economico “aggregato” delle squadre di serie A meno pesante, visto che fra il primo e il secondo margine si sono insinuati appunto i 200 milioni di euro di plusvalenza.
Ma è stato nella stagione 2001/02 che il nostro calcio ha toccato il fondo e quello può veramente essere definito come l’anno zero del pallone italiano. La stagione considerata si è infatti conclusa con la radiazione della Fiorentina di Cecchi Gori e la nascita della Florentia Viola di Diego Della Valle, ripescata direttamente in serie C2 per meriti sportivi. In quell’anno, a fronte di un fatturato complessivo dell’intero massimo campionato di poco più di 1,100 miliardi di euro, il solo costo del lavoro – cioè gli stipendi dei calciatori, dei dirigenti e di tutto il personale dipendente delle squadre della serie A – è stato quasi pari al totale dei ricavi, attestandosi a poco più di 1 miliardo di euro. Questo dato sarebbe da solo sufficiente a delineare lo specchio di quello che qualche anno dopo sarebbe stato definito da due giornalisti esperti di calcio, Marco Liguori e Salvatore Napolitano, Il pallone nel burrone (Come i maggiori imprenditori italiani hanno portato il calcio al crac, Editori Riuniti, Roma 2004). Ma in realtà il dato è ancora incompleto giacché in quella stagione il totale delle plusvalenze è stato di circa 800 milioni di euro. Come a dire che il plusvalore stava diventando superiore al valore che avrebbe dovuto generare quelle plusvalenze.
Per rendere comprensibile ciò che si sta tentando di spiegare con il supporto dei numeri anche a chi con i numeri non ha dimestichezza, provo a dare una spiegazione non quantitativa. I ricavi di una squadra di calcio sono dati prevalentemente, almeno in Italia, dalla vendita dei biglietti dello stadio, degli abbonamenti, dalla cessione dei diritti televisivi e radiofonici in campo nazionale e internazionale, dalle sponsorizzazioni e dal merchandising. I ricavi di un intero campionato, conseguentemente, si ottengono dalla somma dei ricavi di tutte le squadre che vi partecipano. La plusvalenza o la minusvalenza è invece data dalla differenza fra il valore contabile di un qualsiasi giocatore al momento della cessione rispetto al valore contabile posto a bilancio. Così se il giocatore Aristoteles è iscritto nel bilancio della Longobarda con un valore di 100mila euro, la sua eventuale cessione per un milione e 100mila euro genera per la squadra cedente un plusvalore di un milione di euro, che è appunto la differenza fra il valore iscritto al bilancio e il corrispettivo della cessione.
Nella stagione 2001/02 quindi le squadre, almeno stando a quello che è indicato nei bilanci regolarmente approvati e depositati ai sensi dell’Art. 2423 del Codice Civile – che recita «Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria delle società ed il risultato economico dell’esercizio» – hanno ottenuto, vendendo i loro giocatori, una somma quasi pari alla somma di tutte le voci precedentemente indicate. La stagione 2002/03, pur conservando un totale dei ricavi analogo a quella precedente, con un incremento del fatturato di soli 40mila euro, vede una consistente riduzione del costo del lavoro, che scende da 1.000 a 880 milioni. Ma è soprattutto il primo margine, cioè la perdita operativa, che diminuisce da 1.050 a 685 milioni, e sono le plusvalenze, diminuite da circa 800 a 150 milioni, che danno il senso del cambiamento. Verrebbe quindi da chiedersi se sia improvvisamente diminuito il valore dei tanti campioni delle nostre squadre, se siano rinsaviti i presidenti, i dirigenti e il variopinto circo Barnum che ruota intorno al gioco, almeno per noi, più bello del mondo, o se sia intervenuto qualche elemento esterno.
La risposta è facilmente intuibile oltre che nota. Sarebbe stato troppo attendersi una presa di coscienza dei dirigenti e proprietari delle nostre squadre, che anzi continuano a dimostrare di essere insensibili a tutto ciò che accade, anche con riferimento alle recenti vicende. Ciò che accadde è stato l’ennesimo, e purtroppo non ultimo, soccorso da parte delle istituzioni. Infatti era avvenuto che il “sistema calcio” si era avvitato su stesso: da un lato le plusvalenze hanno consentito alle società che vi hanno fatto ricorso di migliorare sulla carta i bilanci annuali, dall’altro però il maggiore plusvalore di un anno genera automaticamente un peggioramento dei conti dell’anno successivo, dal momento che chi vi ricorre è costretto a iscrivere quote di ammortamento sempre maggiori. Quando le società si sono rese conto di non essere in grado di far fronte a quei bilanci che pure avevano redatto e approvato, hanno chiesto aiuto alle istituzioni. Sarebbe a questo punto un utile esercizio di stile domandarsi se è stato corretto tale atteggiamento da parte delle istituzioni o se non sarebbe stato il caso di correre ai ripari.
Entriamo in dettaglio facendo un esempio tra i tanti possibili. Da un’analisi comparata dei bilanci della Internazionale FC S.p.A, regolarmente approvati e depositati, si evince che negli anni considerati, cioè dalla stagione 1997/98 alla stagione 2004/05 (il bilancio chiuso al 30 giugno 2006 non è ancora disponibile), la società ha avuto un risultato operativo complessivo – ricordiamo che il conto economico si azzera alla fine dell’anno, quindi l’analisi considera i deficit operativi – pari a oltre 760 milioni di euro, con un disavanzo medio annuo pari a circa 95 milioni di euro, cioè in pratica ogni mese la società Inter spende per la sua gestione operativa circa 8 milioni più di quello che incassa. Ovviamente non esiste nessuna legge che vieti agli imprenditori di spendere per le proprie società, in qualunque settore esse operino. Ma i soci della squadra del patron nerazzurro non hanno dovuto capitalizzare l’intera somma, poiché per circa 400 milioni di euro si è riusciti a far fronte agli impegni – che altrimenti sarebbero stati non procrastinabili – con l’abilità degli uomini di mercato, che sono riusciti a realizzare cospicue plusvalenze derivanti dalla cessione di alcuni dei giocatori fedeli alla causa nerazzurra.
Così se, da un punto di vista puramente tecnico, sono stati i vari Ronaldo, Vieri e Adriano a segnare caterve di gol, altri comprimari hanno reso alla causa quanto i celebrati campioni. Si scopre quindi che Matteo Ferrari ha generato plusvalenze non soltanto nel bilancio al 30 giugno 1998, quando ha reso alla causa interista soltanto 257.196 euro (la valuta è stata convertita), ma anche nel bilancio chiuso al 30 giugno 2002, quando la sua cessione al Parma ha fruttato la bellezza di 9,7 milioni di euro di plusvalenza. Il funambolico Kallon, oltre ad aver segnato qualche gol utile alla causa interista, ha fruttato circa 7,2 milioni di plusvalenza nel bilancio chiuso al 30 giugno 2000, per effetto della doppia operazione di riscatto della comproprietà dalla Reggina e della cessione al Vicenza, ed è riuscito a fruttare altri 4,3 milioni di euro di plusvalenza nel bilancio chiuso al 30 giugno 2005 per effetto della sua cessione alla squadra del Monaco. E se gli uomini di mercato nerazzurri sono riusciti persino a generare più di una plusvalenza con lo stesso giocatore, non deve meravigliare che nelle stagioni considerate siano riusciti a ottenere quasi 800 miliardi del vecchio conio in plusvalore.
Nel bilancio chiuso al 30 giugno 2002, l’ultimo prima dell’entrata in vigore della famigerata legge, sono quindi riusciti a generare oltre 100 milioni di plusvalenza, di cui oltre 50 derivanti dalla cessione al Parma di Adriano, del già citato Ferrari, di Frey, Gresko e Hakan Sukur, e altri 42 derivanti dalla cessione ai cugini evidentemente non tanto odiati del Milan di Bogani, Brocchi, Seedorf e Simic. Nel primo caso si è poi capito che il Parma, il cui bilancio era consolidato nella tristemente famosa Parmalat, spendeva i soldi dei risparmiatori italiani, nel secondo evidentemente si trattava della inguaribile passione del Cavalier Berlusconi i cui uomini sono ancora oggi soliti ripetere che le «emozioni e i sentimenti non devono essere quotati». Il 27 febbraio 2003 la XIV Legislatura parlamentare ha tramutato in legge un decreto emanato dal governo, il cui premier, per onor di cronaca va ricordato, era anche presidente onorario e azionista di riferimento di una squadra, il Milan, il cui vicepresidente e di fatto numero uno sul campo era presidente della Lega calcio, che sarà ricordato come “legge salvacalcio”. Tale legge era stata “consigliata” anche dalla Federcalcio, il cui numero uno illo tempore era Franco Carraro che nel tempo libero si occupava anche delle sorti della banca d’affari Mediocredito Centrale, controllata da Capitalia e grande elargitrice di finanziamenti e di tutti i supporti necessari delle squadre capitoline ma non solo.
La legge “salvacalcio”, in contrasto con tutte le norme civili e fiscali nazionali e comunitarie – e per la quale è stato avviato un procedimento d’infrazione contro il governo italiano perché la legge ha camuffato un “aiuto di Stato” vietato dall’articolo 87 del Trattato europeo –, ha quindi permesso alle società di calcio di effettuare le svalutazioni necessarie a riportare i bilanci a un livello sostenibile, consentendo il riporto delle stesse nell’arco di dieci anni. Le sole svalutazioni effettuate dalle squadre meneghine e capitoline sono state pari a 900 milioni, e alle società con la citata legge è stato concesso di «spalmare le perdite nei dieci esercizi successivi». Senza l’intervento dello Stato, le società avrebbero dovuto ricapitalizzare le società per l’improvviso depauperamento del patrimonio societario. In particolare la sola svalutazione operata dalla squadra di Massimo Moratti nell’esercizio chiuso al 30 giugno 2003 è stata di 319 milioni, ma anche le altre squadre metropolitane di Roma e Milano hanno fatto la loro parte. Dall’esame del bilancio riferito alla stagione 2002/03, quello appunto chiuso al 30 giugno 2003, si desume che nella sostanza l’Inter, come tanti altri contribuenti italiani, ha aderito ai condoni posti in essere dal precedente governo. Nella voce “Altri oneri straordinari” troviamo scritto: «(omissis) e rappresenta l’accantonamento eseguito a fronte dell’adesione alla definizione automatica per gli anni pregressi ex Art. 9 L. 289/02 (condono tombale), all’integrazione degli imponibili per gli anni pregressi ex Art 8 L. 289/92 (integrativa semplice), nonché alla definizione delle liti pendenti ex Art. 16 L. 289/02».
Entrando nel dettaglio delle acrobazie contabili della squadra vincitrice dello «scudetto alla carriera» (Silvio Berlusconi dixit), il centravanti argentino Hernán “Valdanito” Crespo, comprato durante la campagna acquisti dell’estate 2002 dalla Lazio per 38 milioni, per effetto della svalutazione era stato iscritto a bilancio per una valore di soli 4 milioni, ma durante il calciomercato estivo, cioè nel mese di agosto dell’anno 2003, era stato poi venduto alla squadra londinese del Chelsea per 24 milioni. Quindi il giocatore argentino, peraltro riaccasatosi quest’estate con il medesimo club di via Durini dopo essere stato oggetto dei desideri di molte squadre italiane, ha consentito nel giro di due soli mesi di ottenere una serie di vantaggi contabili alla squadra di Moratti, una prima volta con l’iscrizione nell’attivo di una somma consistente, una seconda volta, quando la sua valutazione è servita a riportare l’indebitamento a un livello sostenibile per effetto della citata “Legge salvacalcio”, una terza volta infine quando, pur in presenza della svalutazione appena iscritta, la società ha potuto iscrivere a bilancio la plusvalenza con un nuovo beneficio contabile.
E per chiarirsi i dubbi si riporta qui di seguito un estratto della Relazione della società di revisione ai sensi dell’Art. 2409-Ter del Codice Civile, la KPMG SpA a firma del partner responsabile Massimo Maffeis:«(omissis) la società ha iscritto nell’esercizio 2003/2004 una plusvalenza, ammontante a €20,8 milioni, relativa alla vendita effettuata nel mese di agosto 2003 del diritto alle prestazioni professionali di un giocatore sulla base di un’interpretazione della norma coerente con la raccomandazione emessa dalla Lega Nazionale Professionisti, come indicato nella nota integrativa. Tale diritto era stato oggetto di svalutazione, capitalizzata in accordo con l’art. 18 bis della legge 23 marzo 1981, introdotto con la legge n. 27 del 21 febbraio 2003, nella voce “Oneri pluriennali da svalutazione diritti”, nel bilancio chiuso al 30 giugno 2003.
«Poiché alla data di redazione del bilancio al 30 giugno 2003 il corrispettivo della cessione di tale diritto era noto, la capitalizzazione di cui sopra sarebbe dovuta essere corrispondentemente ridotta, non ricorrendone più i presupposti in ossequio ai corretti principi contabili di redazione del bilancio. Conseguentemente la voce “Oneri pluriennali da svalutazione diritti” e “Ammortamento delle immobilizzazione immateriali” al 30 giugno 2005 sono rispettivamente sopravvalutati di €13,6 milioni e €2,0 milioni... (omissis)».
Discorso analogo si potrebbe fare per il difensore neocampione del mondo Fabio Cannavaro, che non tanti sotto la Madonnina rimpiangono, ma la cui cessione ha generato per la sua ex squadra una bella plusvalenza di quasi 10 milioni, come si evince dalla lettura del bilancio al 30 giugno 2005 (p.24). La plusvalenza è anch’essa figlia del precedente abbattimento del valore d’iscrizione a bilancio effettuato quale conseguenza dell’applicazione della legge 27/2003, discutibile ma legittima.
Quello che risulta di difficile comprensione è capire la ratio della valutazione, nello stesso bilancio d’esercizio, delle “Compartecipazioni ex Art. 102 Bis delle Noif” dei forti giocatori Ticli, Livi, Ferraro, e Varaldi per 1,750 milioni di euro ciascuno e di iscrivere fra i costi passivi, nella voce “Debiti per compartecipazioni ex Art. 102 Noif” 6 milioni di euro per gli altrettanto forti giocatori Brunelli, Deinite, Toma Duk e Giordano.
La controparte di entrambe le operazioni contabili è stata la squadra del Milan, a sottolineare il buon rapporto tra le due società. Si deve sottolineare che le società che hanno fatto ricorso ai “benefici effetti” della legge 21 febbraio 2003, n.27, non hanno commesso alcun reato. Tralasciando i discorsi sulla bontà di una legge criticata da subito dagli addetti ai lavori e dalle persone di buon senso, il fatto che a soli due anni dall’entrata in vigore, sulla scorta anche delle citate critiche, quella stessa legge sia stata abrogata dal decreto legge n.155 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.151 del 1° luglio 2005, sempre comunque sotto il governo Berlusconi, dovrebbe indurre più di una riflessione. Il 14 luglio 2006, all’indomani della vittoria dei recenti mondiali tedeschi, il quotidiano confindustriale Il Sole 24 Ore ha pubblicato un articolo, passato sotto silenzio, in cui si racconta del compromesso raggiunto dal Milan e dall’Inter con la Federazione italiana gioco calcio. Nella sostanza si è registrato un intervento a “gamba tesa” della Covisoc, la Commissione di Vigilanza sulle società calcistiche. Fino al 1996 la stessa aveva il compito di intervenire nel merito dei comportamenti delle società calcistiche, per esempio autorizzando i prestiti. Da quella data, con il governo Prodi in carica, invece quei poteri le erano stati sottratti e oggi ha praticamente il solo compito di sorvegliare la gestione economica e finanziaria delle società al fine di garantire lo svolgimento dell’attività agonistica.
La Covisoc, presieduta da Cesare Bisoni, ha criticato i conti delle squadre milanesi a seguito delle analisi che le competono. Infatti nel corso dell’anno 2005 le due squadre, per mitigare la bocciatura del decreto salvacalcio, erano ricorse a un’operazione di cessione del marchio e, nel caso dell’Inter, anche alla successiva cessione in pegno a una banca per farsi anticipare la somma necessaria. Fin qui nulla di strano. Ma quelle cessioni del marchio erano state poste in essere con due diverse società controllate dagli stessi club. Il Milan ha compiuto la vendita a una società controllata per la somma di circa 181,3 milioni, invece l’Inter ha effettuato la cessione del marchio alla controllata Inter Brand per circa 150 milioni. La Covisoc ha applicato il semplice criterio delle partecipazioni infragruppo e quindi ha considerato come non avvenute le due cessioni. Entrambe le operazioni sono state eseguite per assorbire senza impattare il patrimonio netto e senza dover chiedere agli azionisti di riferimento di mettere mano al portafoglio per ricapitalizzare la società. Ma dopo la bocciatura della Covisoc, che aveva chiesto alle società di compiere le richieste capitalizzazioni, il compromesso raggiunto con la Federazione è stato quello di compiere per l’anno in corso una ricapitalizzazione, che per l’Inter è stata di 20 milioni oltre al congelamento di altri 20 milioni derivanti dalle eventuali cessioni della campagna acquisti e trasferimenti, e per il Milan è stata definita in misura inferiore. Ovviamente il problema si porrà entro il prossimo 30 giugno 2007.
Per quella data le due società, e le altre alle quali è stato richiesto di compiere le necessarie capitalizzazioni, avranno solo tre alternative. La prima prevede una robusta capitalizzazione, e questo potrebbe essere un problema anche per portafogli consistenti e per cuori passionali come quello dei due patron; la seconda prevede un cambiamento delle regole in corsa con effetto retroattivo, e il calcio più di una volta ci ha regalato coup de théâtre. La terza? Varie ed eventuali
Giannicola Rocca
Fonte: Il Domenicale
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